lunedì 6 luglio 2009

L’insostenibile pesantezza delle Coop

Cosa sono le società cooperative? La definizione è quella di una “società nella quale almeno tre soggetti gestiscono in comune un’impresa, che si prefigge lo scopo di fornire innanzitutto agli stessi soci quei beni e servizi per il conseguimento dei quali la cooperativa è sorta”.
In altre parole, caratterizzante della cooperativa è il cosiddetto “scopo mutualistico”, il quale, insieme ai principi di “solidarietà e democrazia”, ne costituisce l’essenza primaria.
La materia è disciplinata, oltre che da varie disposizioni speciali, dal codice civile, ma senza voler compiere qui una disamina approfondita possiamo dire che gli scopi mutualistici e solidaristici la caratterizzano a differenza degli altri tipi societari, nei quali invece lo scopo è costituito dal “lucro”.
Pare possibile ragionevolmente applicare i detti principi - senza incorrere nel ridicolo - ad enti quali le banche di credito cooperativo (che dovrebbero agire per realizzare eque politiche del credito, discostandosi da logiche di mero guadagno), o alle grandi cooperative che operano nel settore sanitario, o addirittura alle cosiddette cooperative di consumo (che dovrebbero essere mosse dal fine di acquistare e rivendere a prezzi vantaggiosi, per i soci, beni di consumo di qualità), quali ad esempio il gruppo CoopItalia, che come abbiamo visto detiene un fatturato di dieci miliardi di euro annui (una finanziaria…), e gestisce quasi il 20% delle quote di mercato?
Mi pare che la domanda non sia lecita neppure in forma scherzosa.
Ma perché dovremmo essere interessati ad una simile questione? La ragione è semplicissima: perché, allo scopo di tutelare i particolari fini che abbiamo visto sopra, la legge prevede una serie di previsioni fiscali di assoluto favore (quali, senza entrare nei dettagli, la deducibilità del 70% dell’IRES dalla base imponibile, la deducibilità integrale degli utili destinati a riserve obbligatorie, e quella del 70% degli utili destinati a riserve volontarie), in virtù delle quali le cooperative aderenti a CoopItalia versano allo Stato italiano circa la metà dell’IRES versata dagli altri operatori economici.
Ciò non determina solamente un notevolissimo risparmio, quantificabile nella stessa misura del minore introito fiscale: ciò altera le condizioni del mercato, in quanto consente a questi colossali operatori economici di godere di una eccezionale liquidità da immettere sul mercato, con gli intuibili effetti distorsivi della libera concorrenza nei confronti degli altri operatori che si trovano dunque ad operare in condizioni di svantaggio.
In pratica, nel silenzio assordante dei media e della politica, ci troviamo di fronte a soggetti che, avendo perso nel tempo completamente la loro origine cooperativa correttamente intesa (come sopra chiarito), sono posti nella condizione di potersi giovare di enormi aiuti di Stato (vietati dalla Comunità europea), alterando le regole del libero mercato, nel quale gli operatori dovrebbero muoversi in condizione di parità.
I risultati di questo tipo di politica sono evidenti: CoopItalia ha acquistato nel corso degli anni una leadership assoluta (assolutamente artificiale), valendosi di tutele che la proteggono da quei rischi di impresa che valgono solo per gli altri operatori economici (chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, può leggere “Falce e carrello”, il libro di Bernardo Caprotti che ha squarciato almeno parzialmente il velo che nascondeva alla pubblica opinione questa miseranda realtà tutta italiana (
http://www.confronto.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1251:un-libro-qbombaq-riapre-il-fronte-coop&catid=65:2-riconquistare-competitivita&Itemid=69).
Negli ultimi mesi, come è noto, abbiamo ancora una volta assistito (non posseggono pudore) alla rappresentazione teatrale della solita banda.. dei fascimpresisti riuniti, che hanno portato l’ennesimo attacco alle pensioni: ma nessuno parla della necessità di armonizzare obblighi fiscali e contributivi per tutti gli operatori economici che svolgono attività similari, realizzando una concorrenza meno iniqua e giusti maggiori introiti per le casse dello Stato.
Io mi sono però posto una domanda: come mai questa vicenda vergognosa non solamente non è all’ordine del giorno, ma è praticamente misconosciuta dalla pubblica opinione?
Eppure, si tratta palesemente di colossali aiuti di Stato ingiustamente elargiti a settori produttivi “in quota sinistra” (non è certo casuale la localizzazione dei centri di potere di questi interessi, la loro origine in prevalenza della Toscana e dell’Emilia Romagna): perché la destra non ha mai posto il problema?
Perché, con una crisi come questa alla quale far fronte, non si è ritenuto di rendere omogenei i diversi regimi fiscali e contributivi?
Non saprei spiegarmente la ragione, ma mentre mi ponevo il quesito mi è risuonata nella testa un’altra domanda: perché nel corso dell’attività dei governi di centrosinistra nessuno ha mai avvertito l’esigenza di assumere provvedimenti normativi concreti per risolvere quel “conflitto di interessi” del Presidente del Consiglio, che rappresenterebbe il peggiore di tutti i mali della nostra Repubblica?
Non è che magari… i “litigi” - tra PDL e quello che Beppe Grillo chiama Pdmenoelle - sono meno cruenti di quanto appaiano, ed il patto, non scritto, è quello di non pestarsi troppo i piedi vicendevolmente?

venerdì 3 luglio 2009

I CONFLITTI D’INTERESSE DELLE COOP… E DEL COMPAGNO BERSANI

La demenziale rappresentazione del panorama politico italiano, offerta in pasto all’opinione pubblica più pigra e meno consapevole, vede da più di quindici anni la contrapposizione tra il “Re della filibusta” Berlusconi da una parte, impegnato a difendere i propri meschini interessi patrimoniali con “leggi ad personam” e lo strazio di ogni forma di libertà democratica, ed un manipolo di coraggiosi patrioti, animati da nobili interessi sociali, dall’altra.
Il primo, valendosi principalmente della manipolazione della volontà collettiva tramite il possesso esclusivo dei media, avrebbe conseguito un potere personale immenso, mediatico e dunque politico, adoperato in funzione esclusiva del saccheggio delle pubbliche risorse, con la complicità interessata delle categorie degli artigiani, dei professionisti, dei lavoratori autonomi in generale, dipinti come una massa di evasori fiscali e malfattori (si veda l’ultimo discorso del prossimo segretario del PD, Bersani), disposti a tutto pur di rallentare il cammino delle riforme indispensabili per il progresso economico, civile e morale del paese, e per ostacolare una meno iniqua redistribuzione della ricchezza prodotta.
I secondi invece, privi di mezzi ma animati da indomabile spirito altruistico, e che militerebbero principalmente nelle file del Partito democratico, condurrebbero le loro battaglie (sconfitti talvolta solo dalle forze preponderanti del malaffare, anche mafioso), esclusivamente in nome dell’interesse collettivo, a fini di maggiore equità e giustizia sociale.
Per quanto possa apparire sconcertante, una simile semplicistica visione appartiene non solamente a segmenti marginali ed incolti della pubblica opinione italiana, bensì anche a settori della cosiddetta intellighenzia: capita di sentirla riecheggiare in discussioni con insegnanti, pubblici e privati funzionari, magistrati, e persino con docenti universitari.
E’ sufficiente però un modesto sforzo informativo per rendersi conto della falsità innanzitutto di una delle asserzioni che capita più spesso di ascoltare: ovvero quella relativa alla presunta disparità delle forze in campo, secondo la quale la “sinistra” non possiederebbe la tutela di un adeguato sistema di corposi interessi economici, fermamente intenzionato a sostenerla, per il conseguimento di obiettivi propri.
Ho in precedenza avuto modo più volte di richiamare la vergognosa cointeressenza tra l’attuale opposizione e forze finanziarie di gigantesco spessore; in particolare, oltre ad alcuni istituti bancari (si pensi a mero titolo esemplificativo al Monte dei Paschi di Siena, nel quale ricopre la carica di vice presidente quel Gaetano Caltagirone - che ne è anche il secondo azionista privato - genero di Casini, e neo alleato… del “nuovo che avanza”), deve venire in considerazione principalmente il settore della grande distribuzione, in particolare quello delle cosiddette cooperative. Su queste ultime, ed in particolare sull’esistenza di norme di favore nel nostro ordinamento per queste realtà, nonché sulla violazione della disciplina europea che configurano, mi riprometto di soffermarmi più compiutamente in un prossimo post.
Oggi vorrei solo esaminare alcuni numeri.
Tutti conoscono la realtà distributiva di CoopItalia: ma pochi sanno, probabilmente, che questo gigantesco colosso finanziario è il primo gruppo distributivo italiano, con una quota di mercato superiore al 17%, ed un fatturato di oltre 11 miliardi di euro annui (praticamente, una manovra finanziaria).
Coop Italia è presente in 17 regioni italiane su 20, e può realizzare i suoi giganteschi proventi grazie all’ausilio di una realtà distributiva composta da 70 ipermercati, 561 supermercati, 199 discount, 446 altri punti vendita di piccole e medie dimensioni, e… 4 ipermercati in Croazia.
I piani di sviluppo per l’immediato futuro, nel nostro paese, prevedono l’apertura di altri 29 ipermercati e 79 supermercati.
Riesce veramente così difficile comprendere quali effetti di immenso profitto possano aver prodotto su una rete distributiva di queste dimensioni le cosiddette “lenzuolate” dell’ex ministro Bersani, non a caso… prossimo segretario del PD?
I detti provvedimenti, senza pudore alcuno spacciati per “liberalizzazioni” (mentre sono in realtà aiuti di Stato finalizzati alla costituzione di nuovi monopoli, mediante la sistematica alterazione delle regole del mercato, come vedremo meglio nel prossimo post), sarebbero stati varati dal governo di Romano Prodi per “favorire la concorrenza, e determinare effetti benefici per il cittadino”.
Così, non pago degli altri benefit concessi senza vergogna ad altre “aziende di famiglia”, il governo Prodi ha concesso alle Coop non semplicemente la vendita, ma la produzione dei medicinali da banco, regalando loro un nuovo proficuo mercato, ridisegnando la geografia dei produttori nel settore.
Si è poi concessa la distribuzione dei carburanti per auto (e qualunque commento sul punto risulta addirittura superfluo, ove si pensi al beneficio che ciò rappresenta).
Si è consentito (tramite un accordo con Telecom) la creazione di un nuovo operatore telefonico virtuale (Coop Voce), aprendo anche il mercato delle telecomunicazioni, agli amici distributori… nell’interesse comune, si intende.
Non paghi, si sono cambiate le norme che disciplinavano le professioni, e si è offerta la possibilità (immediatamente realizzata) di aprire all’interno degli ipermercati servizi di consulenza legale e matrimoniale, ed addirittura psicologica.
Si sono realizzate delle politiche economiche finalizzate alla realizzazione di vergognose speculazioni private, realizzate nell’interesse dei soggetti più forti dell’imprenditoria della grande distribuzione, alterando significativamente in negativo le possibilità offerte agli altri operatori e commercianti titolari di aziende private di dimensioni minori, impossibilitati a reggere l’attacco della nuova titanica concorrenza.
Altro che liberalizzazioni, operate allo scopo di favorire la concorrenza: questi sono espropri, attuati a favore di nuovi monopolisti, in danno di altri operatori, mediante l’ausilio (come meglio si chiarirà) di previsioni di legge di favore, configuranti veri e propri aiuti di Stato proibiti dalla Comunità europea.
Se questi dati vengono letti in correlazione con altri fatti noti, come ad esempio la revoca dei contratti per l’alta velocità della TAV… ovunque tranne che nei tratti di competenza delle cooperative, piuttosto che gli scandali bancari che hanno visto coinvolti i massimi vertici del PD, che cosa dite, possiamo avanzare l’ipotesi di un gigantesco conflitto di interessi di questa sinistra con il Paese… o siamo stati influenzati dai telegiornali di Emilio Fede?

martedì 30 giugno 2009

Vecchie puttane di regime… e Casini nuovi

Nessun cittadino avrà dimenticato come, nel corso della propria brevissima e sciagurata esperienza di malgoverno, Romano Prodi ebbe a nominare Ministro della Giustizia l’on. Clemente Mastella, comunemente a buon diritto ritenuto emblema di certa voltagabbana politica nostrana; un serbatoio di voti deambulante, provento di vecchie e mai cessate pratiche clientelari, in prevalenza localizzate - duole dirlo, ma è la verità - nel nostro profondo sud.
Al novello europarlamentare Mastella, nel periodo in cui ricopriva la carica di Ministro, ebbi a spedire (ovviamente firmata con nome e cognome, e corredata di indirizzo e numero telefonico), una mail presso il recapito ufficiale in dotazione a tutti i deputati, nella quale (unitamente ad una serie di osservazioni critiche sulla politica demenziale posta in essere in ordine a certe tematiche concernenti il funzionamento del Tribunale di Napoli), profetizzavo l’ingloriosa caduta del governo Prodi, avvertendo il deputato che certamente, in caso di difficoltà (puntualmente sopravvenute) i suoi nuovi “compagni di merende” di questa singolare “sinistra” italiana, visti i suoi trascorsi e la… stima popolare della quale godeva, avrebbero assestato al Mastella un poderoso calcio nel culo, mandandolo a farsi benedire da uno di quei curati di campagna, suoi amici.
Il resto… è storia del nostro Belpaese.
Ora, mi capita di leggere (su un allegato al Corriere della sera… e dove sennò?) che l’on.le Mastella mette in guardia il Presidente Berlusconi da un presunto complotto ai danni del governo, ordito dal diabolico (il solito) Massimo D’Alema, con il quale ci si riproporrebbe di scalzare Berlusconi, sostituendolo con Pierferdinando Casini alla guida dell’Esecutivo.
Qualcosa di vero deve esserci: in un post precedente avevo già sottolineato frequentazioni inquietanti tra Montezemolo e Gaetano Caltagirone, il suocero di Casini, che paga al giovane virgulto i conti della politica... e non solo quelli (http://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Gaetano_Caltagirone).
Proprio in occasione di un convegno organizzato dal Caltagirone, peraltro, recentemente il Montezemolo aveva rivolto al paese un appello sulle sue parole d’ordine (la mia traduzione… è nota) di “meritocrazia e concorrenza”.
Ma che si tratti di Casini, di Draghi, o di qualunque altro prezzolato professorucolo da strapazzo, e quale sia il contenuto di questo vergognoso ennesimo accordo tra poteri forti per rovesciare il risultato delle libere elezioni, a mio avviso poco conta: mi pare che anche questa volta siano stati stati fatti i conti… senza GLI osti.
Il primo, ovviamente, è Silvio Berlusconi, recentemente ulteriormente rinfrancato dal positivo giudizio delle urne per le consultazioni amministrative, ed abituato, come giustamente rileva Mastella nello stesso articolo, a “difendersi con i carri armati”.
Ma il secondo “oste” è addirittura più temibile del primo: è il popolo italiano.
Gli italiani (il concetto… non pare evidentemente sufficientemente chiaro) non hanno scelto di farsi governare da Berlusconi perché convinti da Emilio Fede, o in quanto vittime di una sorta di innamoramento figlio della pozione magica di una qualche megera di passaggio: gli italiani hanno scelto di farsi governare da Berlusconi perché non vogliono al potere, fortissimamente non vogliono, quella maledetta accozzaglia di fascimpresisti parassiti, accompagnati dal loro pietoso circo di giullari e questuanti, professori universitari ed ex sindacalisti, che non hanno lavorato un sol giorno in vita loro.
Bisogna fare grande attenzione: quando Prodi cercò con demenziale violenza di governare i fenomeni economici italiani contro il Paese e le sue categorie produttive, fu costretto a starsene rinchiuso nelle sedi istituzionali, perché ogni volta che metteva fuori il naso (lui, Padoa Schioppa, Visco e… tutti gli altri) rischiava seriamente di beccarsi non solamente vibrate manifestazioni di dissenso, ma di buscarle di santa ragione.
Un episodio pare più eloquente di qualunque discorso: il tentativo di linciaggio dell’economista Giavazzi ad opera dei tassisti romani; a dimostrazione palese che la gente comprende benissimo i fenomeni politici ed economici che agitano la nazione, le vere dinamiche sottese ad accadimenti apparentemente diversi e distanti.
Gli italiani… gli italiani sono così, sono brava gente, sopportano quasi tutto.
Quando però arriva il momento in cui si cerca di sovvertire la volontà del Popolo, quando compaiono i nuovi fascisti a tentare di privarli del loro diritto di scelta democratica, se gli girano i coglioni, sono anche capaci di appendere a testa in giù su un Piazzale chi li aveva sottovalutati, e di sputare sui loro cadaveri.

lunedì 29 giugno 2009

Fascimpresismo… di ritorno

La ridicolizzazione dell’avversario politico, mi viene detto, è da sempre una delle tecniche adoperate dai sostenitori dei regimi totalitari, per negare il valore delle argomentazioni, e dunque le giuste ragioni, delle opposizioni.
Per la verità non sono del tutto d’accordo: normalmente nei regimi totalitari di negare le possibilità di espressione delle minoranze (e più spesso delle maggioranze) si occupano, a seconda delle esigenze, gli eserciti, la polizia, la magistratura, ed un certo tipo di intellettuali.
Ciò si verifica però di norma quando un’opposizione vi sia, quando cioè la consapevolezza della pericolosità sociale di determinati assetti politici, finanziari, economici e sociali, sia ben stata compresa dalla maggioranza (o da un’illuminata minoranza) del corpo sociale.
In Italia la crescita della consapevolezza riguardo alla pericolosità di certe pericolosissime dinamiche, mi pare sia invece ancora a livelli inquietanti.
Il dibattito politico è interamente assorbito da discussioni concernenti la vita privata dei protagonisti della scena, con possibili sviluppi ancora inimmaginabili, ma certo poco rassicuranti; mentre tra insulti, sceneggiate quotidiane, e discussioni da “lavandaie”, i veri temi della politica sono del tutto oscurati.
Il Paese dovrebbe democraticamente interrogarsi, e proporre soluzioni quanto più possibile condivise, sui temi globali dello sviluppo sostenibile migliore, il che vuol dire temi ambientali, della ricerca, del controllo dello Stato sulla finanza e sull’economia, sui mezzi di informazione, sulle infinite questioni morali (e non solo sui conflitti di interesse… palesi), sui sostegni ai meno autonomi, su una lotta all’economia sommersa che non si basi esclusivamente (come sempre è accaduto nel passato) su ridicole rappresentazioni teatrali dagli effetti concreti nulli, bensì sulla individuazione delle vere significative evasioni, dalla sottoposizione agli obblighi fiscali.
Perché abbiamo un’opposizione che, anziché richiamare ossessivamente le dette questioni, esercitando una potente attività di stimolo sul governo della maggioranza, e pretendendo il riequilibrio solidale della ricchezza prodotta e la sua redistribuzione, si esercita nell’attacco sterile, smodato e scorretto nei confronti del leader più e più volte democraticamente designato dalla maggioranza dei cittadini?
E’ solo questione di incapacità ed inconcludenza, o vi è di più?
Non c’è dubbio che l’opposizione in Italia attraversi un momento drammatico: la scelta demenziale di puntare tutto sulla innaturale convivenza forzata di ex comunisti, presunti new progressisti, e cattolici oltranzisti, ponga il fronte oggi minoritario dell’opposizione in una situazione di estrema difficoltà: ogni qual volta si tratta di operare una scelta di campo (ed il governo di Romano Prodi ne è stato l’esempio) vengono alla luce tutte le più profonde ed inconciliabili differenze, mentre vi è una difficoltà gigantesca persino nella redazione di un programma minimo comune di governo da sottoporre al giudizio dei cittadini, di tal che l’impressione che si ricava è quella di un fronte disomogeneo e caotico, nel quale nessuno è in grado di decidere alcunchè.
L’antiberlusconismo è l’unico collante possibile: ma quando arriva il momento di operare delle scelte, ciò si rivela assolutamente impossibile.
La domanda che tutti si pongono, però è un’altra: l’immenso potere del Presidente del consiglio, costituisce oppure no un ostacolo per lo sviluppo democratico del Paese? Può addirittura costituire l’anticamera di un regime (come sostengono con una puntina di isteria autorevoli commentatori), nel quale gli spazi dell’informazione, delle libertà individuali, vengano ad essere seriamente compromessi?
Tali quesiti ovviamente vengono prima dell’altra grande questione (questa invece ben fondata): può far bene ad una nazione la perenne difficoltà di un ricambio, dal momento che la fondamentale azione di riequilibrio e redistribuzione della ricchezza prodotta appare difficilmente perseguibile da un esponente della grande imprenditoria, che certo dovrebbe avere a cuore le categorie privilegiate ben più di quelle dei meno abbienti, dei più deboli?
La questione è complessa: e non vi è dubbio che un sano ricambio appaia in linea di massima imprescindibile per il dispiegarsi armonico delle dinamiche democratiche di una nazione occidentale moderna.
Il problema però è che, a quanto appare, oggi in Italia si verifica un fenomeno assolutamente singolare, forse unico nel panorama internazionale dei paesi occidentali: la sinistra italiana ha vissuto, e vive, una crisi identitaria drammatica, che l’ha condotta a tradire la propria funzione sociale storicamente determinata (che è quella di un progresso… meno iniquo), per aderire acriticamente alle ragioni del grande capitale nostrano ed internazionale, nella speranza vana di poter trarre sostegno e mezzi per rovesciare “il nemico di sempre”.
Berlusconi è un imprenditore anomalo: da sempre estraneo al giro dei “salotti buoni”, ha costruito con mezzi (qualche volta ritenuti discutibili) un potere personale immenso, in grado di fronteggiare da solo (non sempre nell’interesse comune) le scelte della tradizionale impresa italiana parassitaria ed assistita (il riferimento agli Agnelli, ed al loro lacchè Montezemolo, appare doveroso, in quanto dotato di potente significato emblematico).
Il modo indecentemente aggressivo ed insensato con il quale il governo di Romano Prodi ha favorito i “poteri forti” è sotto gli occhi di tutti: senza una maggioranza in grado di sostenerne l’azione, sono state (sono solo pochi esempi) svendute le uniche tratte ferroviarie produttive ad una società mista Montezemolo-Della Valle, e si è favorita oltre ogni limite di decenza la Fiat, e la costellazione delle imprese collegate (con il suo costituire, ancora e sempre, il simbolo di quella imprenditoria che socializza le perdite e capitalizza – ormai quasi sempre all’estero - i profitti).
Si è tentato di favorire il grande capitale tramite misure folli (si pensi alla previsione demenziale dell’ingresso dei soci di puro capitale negli studi legali; si pensi all’attribuzione alla grande distribuzione della produzione di farmaci, e della distribuzione dei carburanti; si pensi al tentativo di rendere i tassisti dipendenti… di chi e perché non è stato dato sapere).
L’unico soggetto sociale degno di attenzione (servile, attenzione) diviene l’impresa; non quella, ovviamente, dell’artigiano o del professionista (additati, anzi, al pubblico ludibrio come pericolosi evasori, oscuri adepti di caste iniziatiche titolari di immeritati privilegi socialmente improduttivi), bensì l’impresa del grande capitale.
Quel grande capitale che, mosso dall’ideologia unica dell’aumento perenne dei profitti accompagnato dalla diminuzione dei costi, torna oggi alla carica: con una campagna mediatica senza precedenti, alla quale fanno da cassa di risonanza i quotidiani ed i settimanali (Repubblica; L’Espresso) del buon De Benedetti, ed il Corriere della sera (della Fiat, ed altre undici mega imprese nazionali).
Chi di de Benedetti abbia voglia di leggere la biografia (http://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_De_Benedetti) si stupirà di ritrovarlo coinvolto in praticamente tutte le vicende del malaffare nostrano degli ultimi trent’anni; ma sono probabilmente storie vecchie, errori di… gioventù destinati a non ripetersi, da quando l’ingegnere nel 2005 ha definitivamente trasferito (come molti altri imprenditori nostrani) tutte le proprie sostanze in società interamente o parzialmente costituite all’estero.
Quell’estero… così vicino, dal quale le pubblicazioni di Murdoch, concorrente dalle dimensioni elefantiache globali, continuano ogni giorno ad aggredire senza pudore il piccolo italiano che si è fatto da solo, e che persegue testardamente le proprie politiche di governo, certo non con l’ideologia di un uomo di sinistra, ma senza cedere oscenamente alle pressioni di quei poteri forti, che posseggono nomi e cognomi, per chi possegga la capacità di leggerli.
E di fronte alla cui bestiale aggressività anche prendere tempo… costituisce per il Paese un’ineludibile necessità difensiva.

giovedì 25 giugno 2009

I monopoli autonomi e sovranazionali

Il filosofo Umberto Galimberti, nell’indagare quelle che gli appaiono come le ragioni di un disinteresse sostanziale della nuova generazione verso i temi politici del cambiamento ( http://www.youtube.com/watch?v=zfzFib23u8E&feature=related ), individua in una sorta di indecifrabile evanescenza del “mercato” una delle principali ragioni della difficoltà di individuare concretamente i soggetti responsabili della trasformazione globale che ha condotto alla realizzazione di un nuovo ordine mondiale, nel cui ambito immensi poteri finanziari si sono rivelati in grado di accentrare un potere senza precedenti, addirittura maggiore di quello da sempre detenuto dagli Stati nazionali.
Tutti abbiamo compreso, in altre parole, come il fenomeno della cosiddetta globalizzazione sia governato da nuovi soggetti finanziari, i cui interessi si sono saldati (e si stanno ancora, costantemente, in qualche modo continuando a saldare), che ha imposto un modello di sviluppo nel quale si sarebbe affermata quale nuova ideologia unica quella dell’aumento dei profitti e diminuzione dei costi (cui si accompagna una nuova e più tremenda forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo). Nei post precedenti ho illustrato ampiamente il mio pensiero sul punto, sinteticamente richiamando anche le interpretazioni di autorevoli filosofi ed osservatori.
Ma è vero oppure no che gli immensi interessi che governano i nuovi centri del potere globale siano privi di volto? E’ corretto affermare che sia tanto difficile individuare i detentori del nuovo potere assoluto, allo scopo di indagare nuove possibilità di resistenza culturale e contrapposizione ideale?
Chi c’è dietro quelle “corporazioni transnazionali” che “distribuiscono direttamente la forza lavoro tra i differenti mercati, allocano funzionalmente le risorse, organizzano gerarchicamente i settori della produzione mondiale”? (da IMPERO, di Hardt/Negri, ediz. BUR, 2007)
A chi fa capo quel “complesso apparato che seleziona gli investimenti e che dirige le manovre finanziarie e monetarie e determina la nuova geografia del mercato mondiale, e di fatto la nuova strutturazione biopolitica del mondo”?
Possibile che realmente non sia quantomeno possibile individuare i fenomeni economici che costituiscono l’espressione manifesta ed immediata delle nuove realtà finanziarie globali?
Io non ci credo. La domanda è evidentemente retorica. Gli esempi appartengono al nostro quotidiano. Si pensi a titolo esemplificativo al cosiddetto fenomeno della “grande distribuzione”.
Da tempo si è ormai affermato in ambito economico, e non solo nei ricchi paesi occidentali bensì in tutto il pianeta, il fenomeno della progressiva crescita di soggetti non più solo in grado di operare la distribuzione di beni e servizi, ma di produrli direttamente; questi giganteschi centri di interesse appaiono oggi in grado di mirare alla creazione di veri e propri monopoli produttivi e distributivi, progressivamente realizzando (forti dell’iniziale condizione di supremazia) il trasferimento di ogni e qualsivoglia forma di produzione di ricchezza, attirandola a sé, come un immenso buco nero.
La grande distribuzione si manifesta sul mercato come un soggetto in grado di annientare qualunque forma di concorrenza: avendo infatti la possibilità di esser presente in praticamente tutti gli ambiti commerciali, può quasi sempre praticare iniziali condizioni economiche particolarmente favorevoli all’utilizzatore finale, accaparrandosi in tal modo la clientela, e costringendo alla chiusura gli altri operatori strozzati dal lievitare dei costi, potendo ciò realizzare sia grazie alla possibilità di lavorare inizialmente in perdita in certi settori (avendone altri assai produttivi), nonché ricattando successivamente i fornitori, imponendo prezzi di acquisto delle merci bassissimi (è noto come ai produttori di latte, per fare un esempio, vengano imposti prezzi risibili, attuando poi sullo stesso bene ricarichi – e conseguentemente guadagni – altissimi).
Ora, se leggiamo i dati (che certo sono parziali) relativi ai gruppi più importanti, rimaniamo sconcertati: la Carrefour (http://aziende.monster.it/carreit/ ) opera con numeri degni di uno Stato nazionale, ed altrettanto può dirsi per Auchan (http://www.auchan.it/ChiSiamo/AuchanNelMondo/INumeri/Pagine/INumeri.aspx ), nonché per altre realtà di dimensioni minori, spesso destinate a venire presto o tardi fagocitate, in questo mostruoso processo di crescita all’infinito, da realtà più grandi (in ambito nazionale, si pensi per esemplificare alle Coop, alla Conad, alla Esselunga).
E’ noto a tutti come negli ultimi anni nel nostro paese siano state aperti centinaia di nuovi punti vendita di queste immense realtà globali.
E dovrebbe essere noto a tutti (ma molti non lo hanno ancora compreso) come le politiche economiche dei governi che si sono succeduti (quello di Berlusconi in verità un po’ meno) abbiano puntato a favorire il processo di crescita di queste realtà nel nostro panorama nazionale; non si comprende se per miopia, o per attuare un preciso e perverso piano finanziario.
La breve esperienza del governo di Romano Prodi è sul punto illuminante: la violenza cieca con la quale si è tentato (spesso con esiti favorevoli) di far entrare la grande distribuzione in realtà economiche tradizionalmente estranee agli ambiti suoi tradizionali, ha avuto dell’incredibile: le cosiddette “lenzuolate” del ministro Bersani, al di là degli aspetti più eclatanti e paradossali (si pensi all’apertura di centri di consulenza legale, o addirittura… psicologica, all’interno di centri commerciali) si è accompagnata all’attribuzione di nuove immense potenzialità produttive quali, ad esempio, la possibilità di accedere alla produzione diretta di specialità farmaceutiche, con propri nuovi marchi, con gli immensi benefici connessi.
Il tutto contestualmente ad una martellante campagna mediatica condotta sui fronti più svariati, con i quali si è tentato di spacciare il riequilibrio di assetti economici tradizionali, in favore dei nuovi monopolisti, per misure in grado di favorire la concorrenza ed i consumatori (che hanno invece ricevuto in cambio benefici assai modesti, con ogni probabilità solo temporanei).
Come è possibile che fenomeni di tale rilevanza possano realizzarsi nella sostanziale indifferenza ed incomprensione dei cittadini? Come si può pensare che il mutamento profondo degli equilibri finanziari, economici, produttivi e distributivi del mercato non sia stato accompagnato da discussioni accese, da un dibattito consapevole, da parte del corpo sociale? Come possono gigantesche realtà produttive come quelle alle quali si è fatto cenno realizzare modificazioni tanto profonde del mercato, impoverendo interi ambiti regionali, fornendo in cambio pochi (e quasi sempre precari) posti di lavoro, senza che i partiti, i sindacati, i media, la pubblica opinione si siano lungamente interrogati sull’opportunità sociale di simili modificazioni, spesso giustificate con motivazioni vaghe ed insignificanti (“il mondo cambia…. la Cina, ah, la Cina!”).
Sono interrogativi non solamente privi di meditate risposte… sono interrogativi che non sono mai stati posti.
Perché?

lunedì 22 giugno 2009

L'imprescindibile necessità della consapevolezza

Interpretare la contemporaneità, per chi voglia provare a comprendere il proprio tempo, non è mai agevole; e lo diviene ancor meno quando siano in atto mutamenti epocali, tutt’altro che definiti, relativi a significative ristrutturazioni di fenomeni quali il mercato, la produzione, la distribuzione ed in generale il nuovo assetto dei rapporti tra le classi sociali.
Accade nondimeno di imbattersi in analisi connotate da potente lucidità argomentativa, in grado di riordinare e conferire senso ai flussi caotici delle informazioni che riceviamo, descrivendo quadri d’insieme logicamente coerenti (per quanto possibile) e rivelatori.
I fenomeni (certo eterogenei) relativi alla diffusa popolarità di personaggi quali il filosofo Garimberti, piuttosto che il “barricadero” padre Zanotelli, o “l’ignorante” divulgatore di notizie Grillo, forniscono la prova che una certa analisi appare connotata da caratteri ormai di senso comune, e di significato non menzognero.
Pur nella diversità delle singole posizioni, dei ruoli sociali rivestiti, tutti questi nuovi “guru” fanno affermazioni comuni riguardo a verità invero indiscutibili, quali la perdita del potere assoluto degli stati nazionali, a vantaggio dell’affermazione del nuovo immenso potere, universalmente diffuso e pervasivo, del “capitale globale”, che si sarebbe saldato in una sorta di struttura unica, e si sarebbe dotato di mezzi operativi nuovi, in grado di dettare le proprie regole al mondo intero.
L’ideologo, mi pare, più lucido, nel descrivere questa realtà, è il filosofo Toni Negri, il vecchio “cattivo maestro” degli anni di piombo italiani, riverito ed osannato docente di filosofia in Francia, autore di due testi fondamentali (“Impero” e “Moltitudine”) nei quali analizza con taglio filosofico i nuovi assetti del potere finanziario internazionale, la nuova struttura dei rapporti di classe nel terzo millennio, esprimendo una certa fiducia nella possibilità di profondi cambiamenti, in virtù delle nuove possibili forme di “resistenza”, date principalmente dall’utilizzo consapevole e finalizzato delle nuove tecnologie comunicative globali.
Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo ha raggiunto aberranti livelli di novità assoluta, riducendo le persone a degradati ingranaggi di un meccanismo unico, il quale per funzionare non necessita neppure più della forza lavoro, che gli era indispensabile fino a pochi anni orsono, con la conseguente riduzione dell’Uomo a mero consumatore, privato di ogni e qualsivoglia dignità.
Non è possibile ovviamente, per chi voglia (e mi pare consigliabile) approfondire il discorso, prescindere dall’attenta lettura dei testi indicati, perché il discorso è complesso e merita (impone) la riflessione meditata che solo la lettura può dare. Tuttavia, pare di potersi affermare che le possibilità di resistenza che si aprono posseggano un carattere nuovo, dalle potenzialità infinite e beneauguranti, dal momento che poi, a ben riflettere, il nuovo capitale globale è un soggetto abbastanza stupido, che si caratterizza per l’ideologia unica del… profitto a quindici giorni e della riduzione dei costi.
La pericolosità di quest’ultimo punto appare palese a chi si interroghi con cognizione di causa sul significato reale nel nostro Paese del tentativo di affermazione di concetti di estrema pericolosità, quali quelli di meritocrazia e concorrenza (nella singolare accezione che viene fornita dai nuovi… “buoni maestri”), nonché nell’attacco - da utimo sferrato con inaudita ed impudica violenza - a forme di tutela basilare dei diritti elementari dei lavoratori (si pensi ad un livello minimo di dignitosa retribuzione; alla stabilità della posizione lavorativa; a diritti quali il trattamento di fine rapporto, ed ai diritti pensionistici), che appaiono a rischio, e che ci fanno ben comprendere quanto sia potente ed insidioso quel Big government, che è il nostro Moloch da abbattere.

venerdì 5 giugno 2009

LA PARABOLA DEL CAMIONISTA

Ieri sera la trasmissione Annozero di Michele Santoro ha messo in onda un reportage di prim’ordine (sembrava della Gabanelli) avente ad oggetto il tema del trasporto su gomma in Italia, e quello, inscindibilmente connesso, della sicurezza sulle strade.
Molte cose le sapevo, credo un po’ come tutti: l’eccessivo ricorso al trasporto su gomma, il generale mancato rispetto delle normative in materia di sicurezza, le conseguenze prodotte in materia ambientale ed i costi sopportati dalla collettività in relazione all’alto numero di incidenti, ed alla ormai abituale conseguente ecatombe di morti ed invalidi civili.
Altre cose invece, lo confesso, mi erano del tutto ignote: tra le quali mi pare doveroso annoverare lo stato di “neo-schiavismo” nel quale versa tutta intera la nutrita categoria professionale degli autotrasportatori.
I quali, veniva sottolineato, non si sottopongono ad orari di guida massacranti (per tollerare i quali ricorrono sovente a sostanze stupefacenti, come a farmaci eccitanti) mossi dal desiderio di lavorare di più, ed incrementare così i lauti guadagni. Ma, essendo divenuti ormai una categoria di DIPENDENTI assolutamente sottopagati e facilmente sostituibili, sotto il perenne schiaffo della IMPRESA (qualunque impresa debba effettuare un trasporto: ma in misura molto consistente “grande impresa degli ipermercati sovrani”), rischiano la pelle ogni giorno (e la fanno rischiare a noi) solo per garantirsi la sussistenza quotidiana.
Si parlava di un guadagno netto di circa 2.500 euro mensili: beh, per guidare sedici ore al giorno (ed anche di più, come emergeva dal servizio) non sono tanti.
Il reportage evidenziava altresì un curioso fenomeno: quello legato al rispetto assoluto, pieno ed inderogabile, da parte degli stessi autotrasportatori italiani (rectius: delle imprese committenti), delle assai più restrittive norme sulla circolazione vigenti sul territorio francese.
Già: passata la linea di confine, si rispettano i limiti di velocità, quelli alla circolazione, gli orari massimi consentiti alla guida, e tutto quanto preveda la severa normativa d’oltralpe.
Chi impartisce ai guidatori le direttive per il viaggio, non si azzarda a comandare di non preoccuparsi di nulla, se non di consegnare il carico in orario: in Francia, le leggi si rispettano.

Mi pare che alcune semplici considerazioni possano e debbano venire formulate.

1) Le violazioni commesse dagli autisti vengono agli stessi imposte dall’impresa (per la quale la vita delle persone vale zero rispetto alla merce trasportata) in virtù del fatto che vi è assoluta convenienza alla violazione; fino al punto che, divenendo il comportamento generalizzato, chi volesse seguire le regole del codice della strada, non potrebbe più farlo, perché sarebbe penalizzato al punto da venire collocato fuori mercato: con amaro senso dell’ironia, un trasportatore siciliano, costretto a guidare più di quindici ore al giorno per rispettare gli orari (pena il licenziamento) osservava che se il camion rimane distrutto in un incidente, la merce ed il mezzo sono assicurati, mentre se non si arriva in tempo… il trasportatore deve pagare una penale di importo pari al valore dei beni trasportati; non è affatto vero, come sosteneva il titolare di un enorme parco mezzi, che il rispetto delle norme di sicurezza comporterebbe il raddoppio del costo del trasporto: ciò non accade in Francia, e la differenza che viene lucrata in Italia aumenta solo il margine di profitto dell’impresa, scaricando i costi sullo Stato, per quanto attiene all’inquinamento ed all’inevitabile crollo delle condizioni di sicurezza, con i costi conseguenti;


2) Lo Stato italiano mostra di non essere in alcun modo in condizione di influire su tale situazione disastrosa: creando alternative efficienti al trasporto su gomma, predisponendo normative serie e controlli efficaci del rispetto delle stesse; la prevaricazione violenta e palese degli interessi privati su quello pubblico, con la massimizzazione del profitto del privato, e l’accollamento dei costi al pubblico, è totale;

3) I lavoratori italiani (non certo solo gli autotrasportatori) sono ormai ridotti in una condizione insostenibile di sfruttamento immorale ed insensato, in nome dell’obiettivo unico della massimizzazione del profitto d’impresa che, come è sotto gli occhi di tutti, è sempre più “grande” impresa; i sindacati non posseggono alcun reale potere di contrapposizione, o di contrattazione, per il miglioramento delle condizioni lavorative e salariali, e non si comprende bene quale sia la loro utilità, se non vengono profondamente modificati dall’interno.

Quella del trasporto merci in Italia è una vera “parabola” che contiene in sé la spiegazione di tutti i mali del sistema Paese; ma che, a ben vedere, offre anche notevoli spunti di riflessione su quello che si dovrebbe iniziare a pensare di fare, per cambiare le cose.